Quando incontro le persone per la prima volta nel mio studio, domando sempre se sono alla loro prima esperienza con uno psicologo per capire la loro conoscenza di un colloquio psicologico e di che cosa succede in un primo colloquio. Senza una conoscenza di ciò che significa fare un primo colloquio psicologico non è raro muoversi con dei pregiudizi in merito o con delle fantasie a riguardo.
A volte le persone possono avere la fantasia che in un singolo incontro succeda la magia e che una volta usciti dalla porta dello studio tutto sarà diverso; altre volte le persone possono pensare che andare dallo psicologo sia solo fare una chiacchierata per sfogarsi; altre ancora che, una volta ascoltata la loro storia, lo psicologo aprirà il suo libro di risposte e gliene fornirà qualcuna adatta alla loro situazione.
Ma cosa succede veramente in un primo colloquio psicologico? Che cosa significa fare un primo colloquio con uno psicologo?
Il primo colloquio in terapia si focalizza sulla conoscenza di quella che è la realtà della persona che per la prima volta si siede davanti allo psicologo. Il termine realtà non è affatto da considerarsi da un punto di vista oggettivo: ciò che la persona racconta è la sua storia, ma lo fa attraverso la sua specifica e particolare narrazione. Il tipo di storia che la persona racconta, il modo in cui lo fa, il suo vissuto e come il terapeuta legge empaticamente quel vissuto: questi sono gli strumenti utilizzati per conoscere la sua realtà psichica.
Se una terza persona raccontasse la vita del paziente ne verrebbe fuori indubbiamente un’altra storia, con attribuzioni di significato differenti ad eventi e comportamenti. Ciò che risulta importante, quindi, non è tanto la raccolta amnestica dei dati, ma come la persona si narra. Già dal primo contatto telefonico, per fissare il primo incontro, il terapeuta può trarre informazioni importanti sulla persona che lo contatta.
L’instaurarsi di un rapporto terapeutico non può prescindere dalla motivazione di entrambi gli agenti; paziente e terapeuta instaurano la loro relazione sulla base di spinte motivazionali forti senza le quali nessun colloquio può definirsi tale. Se l’interazione si fermasse ad un ascolto, seppur attento ed attivo, non potremmo parlare di colloquio clinico.
Il colloquio implica una relazione tra le parti: il terapeuta interroga il paziente al fine di conoscere gli aspetti che il paziente stesso individua come determinanti e trae, da tale conoscenza, modi possibili di lettura che consentano un cambiamento non solamente nella realtà psicologica del paziente, ma anche nelle sue narrazioni, nei suoi comportamenti e nella relazione terapeutica stessa.
L’obiettivo del colloquio in terapia, quindi, è quello di comprendere la realtà psichica del paziente attraverso l’ascolto delle sue narrazioni: questo permetterà di capire non solo come il paziente si racconta, ma anche il suo modo di rapportarsi al contesto in cui vive e con quale stile comportamentale si muove nella sua realtà.
La primissima parte del colloquio si focalizza sull’Accoglienza, momento in cui il terapeuta, attraverso un ascolto empatico, crea le condizioni per far sentire a proprio agio la persona di fronte ad una persona sconosciuta alla quale potersi raccontare intimamente.
Non è facile per nessuno raccontarsi intimamente e quasi mai viene in modo automatico farlo; per questo motivo la prima parte del colloquio si focalizza sull’accoglienza ed è una fase importantissima. Laddove lo psicologo non riuscisse ad accogliere adeguatamente, il colloquio sarebbe già compromesso sin dalle prime battute perché la persona si chiuderebbe a riccio, alzando barriere e rinforzando le proprie difese, non consentendogli, quindi, di entrare nella sua sfera più intima e privata.
Per capire meglio la sostanza di un primo colloquio psicologico, però, è importante focalizzare l’attenzione sulla Fase Libera ed il Processo di Valutazione.
In questa fase la persona si racconta al terapeuta ed il terapeuta esplora le narrazioni della persona, verificando ed escludendo ipotesi. E’ qui che ha inizio per il terapeuta il processo valutativo che porterà ad una diagnosi, ma non nel senso nosografico, quanto più evolutivo.
Quando una persona si rivolge ad un clinico, lo fa sulla base di un problema che in passato ha cercato sicuramente di risolvere da solo. Queste soluzioni tentate (che a volte agisce il soggetto in prima persona, altre volte le persone con le quali intrattiene rapporti significativi) non lo aiutano nella risoluzione del problema; più spesso, invece, contribuiscono alla sua permanenza.
Il sintomo non è che la punta dell’iceberg: se ci limitassimo a classificare il disturbo non avremmo l’opportunità di vedere la sua parte sommersa. La prima cosa che il terapeuta deve chiedersi è come mai il paziente ha scelto proprio questo disturbo e non un altro. In quale modo il soggetto ha sviluppato il suo sintomo? Quali sono i vantaggi che il sintomo assicura al paziente? Perché ha sviluppato il suo disturbo? Il disturbo crea dei vantaggi, spesso risulta essere una strategia personale del soggetto per risolvere un problema: il paziente ha una responsabilità nella formazione del suo sintomo.
Se un sintomo causasse solo sofferenza, non apparirebbe nemmeno. Il sintomo si struttura sulla base di uno stile comportamentale ricorsivo e disfunzionale che produce degli effetti e dei vantaggi al soggetto, causandogli nel contempo sofferenza proprio perchè disfunzionale. La risoluzione del problema è strettamente legata alla possibilità che il paziente si dà nel comprendere realmente in che modo ha strutturato il sintomo e come il suo stile comportamentale contribuisca a sostenerlo.
Attraverso le narrazioni che il paziente fa del suo sintomo, il terapeuta comincia a farsi un’idea del processo d’insorgenza del disturbo e cerca di approfondire le aree che sembrano avere con il sintomo un nesso logico.
La diagnosi, in questo senso, non è semplicemente un’etichettatura del disturbo, non cerca di comprendere solo l’aspetto nosografico, ma diventa una costante ricerca di ipotesi relative all’insorgenza ed alla collocazione del sintomo nella storia del paziente. Un disturbo nasce sempre sulla base di uno stile comportamentale disfunzionale. Il paziente in passato avrà strutturato quello stile perchè produceva effetti sicuramente positivi. Cosa è successo poi? Cosa ha reso quello stile comportamentale da funzionale a disfunzionale?
Il terapeuta lavora su due livelli: nel primo rimane ancorato all’ascolto empatico, non solo ascoltando il paziente e individuando il suo stile comportamentale, ma anche utilizzando se stesso, le sue sensazioni, il tono emotivo della relazione terapeutica stessa; nel secondo elabora ipotesi via via che la narrazione va avanti, cercando di validarle nel corso del colloquio con domande mirate a ciò che sembra assumere un carattere rilevante rispetto a come il soggetto racconta il sintomo, i comportamenti che attua, i soggetti che ne sono coinvolti, le aree che tocca maggiormente e quelle che sembra non voler toccare.
Il primo colloquio passa a questo punto alla fase della Riformulazione di quanto emerso in fase di valutazione: il terapeuta, attraverso la rilettura delle narrazioni della persona, cerca di stabilire nessi logici, attribuendo significati nuovi alle narrazioni proposte sulla base di ciò che è emerso nella fase precedente di valutazione del problema. Il terapeuta fornisce alla persona una nuova definizione del problema ed un nuovo modello di lettura della sua realtà.
Dobbiamo pensare che ciò che emerge dalla riformulazione del terapeuta non è, ovviamente, la verità assoluta, ma ciò che il terapeuta ha compreso di quanto ascoltato empaticamente. Questo vuol dire che il paziente non rimane in una posizione passiva, ascoltando le parole del terapeuta come l’oracolo. Il paziente deve poter sentire intimamente che quelle parole lo “leggono” dentro, deve potersi sentire compreso nel profondo; in assenza di questo sentire, il paziente deve potersi interrogare su quanto sente di poter dare fiducia al professionista al quale si è rivolto. E’ questa la fase del Feedback in cui terapeuta e paziente dialogano e negoziano sulla riformulazione fornita dal terapeuta.
Il primo colloquio non può finire lasciando il paziente in sospensione: in terapia strategica integrata, già nel primo colloquio, paziente e terapeuta lavorano non solo sulla identificazione del problema, ma anche sulla sua risoluzione contrattando un piano terapeutico adatto allo scopo. L’ultimissima fase del colloquio, quindi, è destinata all’Esplicitazione del contratto dove vengono stabiliti gli obiettivi da raggiungere sulla base di ciò che è emerso dalle precedenti fasi, esplicitando nel dettaglio il contratto (durata, tempi, modalità).
Una delle motivazioni che spinge un paziente a tornare dopo un primo colloquio è sicuramente la sensazione di essere stato compreso; il paziente chiede un colloquio perché sente di avere un problema, raccontandosi si mette in gioco, si apre al terapeuta e si aspetta inevitabilmente la stessa disponibilità. La fine di un colloquio non può lasciare il paziente con la sensazione che il terapeuta non lo abbia compreso. Il suo sforzo non può risultare vano: non deve uscire dal colloquio a mani vuote, così come è entrato, ma con qualcosa di altrettanto prezioso di quello che ha dato.
Ci tengo a sottolineare che non è automatico che ad un primo colloquio segua necessariamente una terapia: dico sempre alle persone che incontro per la prima volta durante il nostro primo colloquio che la relazione terapeutica, come succede in ogni tipo di relazione, per essere efficace deve poter essere scelta da entrambi: io come terapeuta devo poter sentire di poter lavorare con la persona che mi siede davanti e la persona che mi siede davanti deve poter sentire che posso davvero aiutarla, che posso davvero fare al caso suo. In assenza di questi presupposti, sarà difficile raggiungere gli obiettivi terapeutici perché mancherà la condizione basilare: la fiducia, la cui mancanza non permette di costruire l’alleanza terapeutica. Per questo motivo è mia abitudine, concluso il primo colloquio, fissare un secondo appuntamento a distanza di una settimana in modo da dare alla persona il tempo di metabolizzare il nostro primo colloquio per poi confrontarsi insieme sulla scelta e sulla possibilità concreta di lavorare insieme costruendo una relazione terapeutica.
Per far comprendere l’utilità di questo “tempo di scelta” utilizzo spesso la metafora del vino rosso: il vino rosso più è corposo e più necessita di un tempo di ossigenazione per essere gustato al meglio, cogliendone tutte le sue sfumature. Per questo motivo, una volta aperto, il vino viene fatto decantare (travasandolo in un recipiente apposito chiamato, appunto, decanter) e lasciato, quindi ossigenare per un dato tempo, prima di essere assaporato.
Per me è importante che la persona decanti il proprio vissuto riguardo il nostro primo colloquio, in modo da entrarci in contatto profondamente e da scegliere se e come volerlo utilizzare. E’ importante che dopo un primo colloquio, la persona si prenda del tempo per ponderare bene la sua volontà ad iniziare un percorso di psicoterapia e se sente di poterlo fare o meno con il professionista che l’ha accolta nel primo colloquio.
Perchè la terapia è un’opportunità e non un obbligo…
E la persona deve poter essere libera di scegliere sia la terapia (scegliere la relazione) sia il suo terapeuta (scegliere la persona con cui entrare in relazione).
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