Quando siamo bambini ci viene naturale vivere le situazioni con positività e allegria, alla costante ricerca del piacere e del divertimento: ci piace ridere, scherzare e desideriamo giocare sempre. Se il mondo fosse popolato solo da bambini sarebbe un luna park continuo, “l’Isola che non c’è dei Bimbi sperduti di Peter Pan”, dove fantasia ed immaginazione la farebbero da padrone.
Poi si cresce… Regole e responsabilità entrano nelle nostre vite, imponendo un confine ai nostri giochi e al nostro divertimento. E’ naturale e sano, è parte del processo di crescita, di maturazione per non rischiare di finire con le “Orecchie di asino come nel Paese dei Balocchi di Pinocchio”.
Ma allora questo vuol dire che una volta cresciuti dobbiamo smettere di giocare e di divertirci? Assolutamente no, ma spesso erroneamente ce ne convinciamo e questa convinzione ci porta poi a strutturare una visione rigida dell’essere adulto.
Questa rigidità e schematicità spesso ci arriva da un’educazione fuorviante che al concetto di Responsabilità associa un significato di serietà, sobrietà, severità, diventando soffocante e pesante e non certamente positivo ed utile.
Ma come si arriva a sviluppare questo atteggiamento serio e pesante? Come si arriva a trattarsi da automi dediti solo ad eseguire gli ordini dettati dal proprio senso del dovere, senza mai dare spazio al gioco, al divertimento e alla “leggera follia”?
La difficoltà a vivere la vita con leggerezza spesso ha radici lontane, prendendo corpo e nutrimento in sistemi familiari disfunzionali che si occupano più di trasmettere disciplina ai propri figli che vicinanza emotiva e sostegno affettivo ed in cui le regole imposte servono a preservare, conservare un equilibrio statico, un ordine precostituito anziché essere utili a dare confini per garantire un senso di integrità e stabilità.
I bambini non hanno filtri, non hanno sovrastrutture, sono energia pura, emozioni allo stato puro e sono pieni di curiosità verso un mondo che guardano con occhi incantati pieni di immaginazione e fantasia; nella loro visione del mondo tutto è possibile! Quell’energia dirompente, se non orientata, può disorientarli, renderli confusi e può diventare distruttiva; le loro emozioni sono intense e non “codificate” e se non riconosciute ed elaborate possono diventare un vortice risucchiante.
Questo significa che i bambini necessariamente vanno orientati e supportati nella loro crescita per imparare a canalizzare tutta quell’energia, finalizzandola alla costruzione di un’identità stabile, di una personalità capace di affrontare il mondo circostante e di vivere la propria esistenza utilizzando l’energia vitale al servizio del proprio benessere.
I bambini vanno, quindi, educati alla vita, ma spesso il termine educazione per alcune persone assume un significato fuorviante di limitazione, repressione e non di orientamento.
Quando frequentavo l’Università, per l’esame di pedagogia studiai un testo dal titolo illuminante “Educazione alla libertà”: i bambini vanno cresciuti educandoli ad essere liberi. Questo vuol dire che esiste un modo di educare in cui le regole servono a liberare, ad aprire, a dare maggiore respiro e non a reprimere, a chiudere e a soffocare.
Molti scambiano la libertà con l’assenza di regole, ma non esiste libertà senza opportunità di scelta e non esistono opzioni di scelta laddove non esistono regole che ne individuano i limiti ed i confini.
Educare alla libertà, quindi significa dare al bambino quelle regole utili a canalizzare la sua energia nella costruzione di un Sé integro e sicuro, così da supportarlo nell’imparare a leggere le sue emozioni e ad utilizzarle per darsi le sue regole interne necessarie ad orientarlo nelle sue scelte di vita. Educare alla libertà significa educare il bambino ai sentimenti, all’ascolto delle proprie emozioni, desideri, bisogni per costruire il proprio percorso di crescita e di vita in modo sano, pieno e soddisfacente.
Il sistema di regole in cui il bambino cresce getta, quindi, le basi per il suo percorso di maturazione interiore verso il mondo adulto; quando, però, l’energia vitale del bambino è considerata in modo negativo e nocivo per il suo percorso di crescita, ci si può convincere che sia più opportuno spegnerla piuttosto che canalizzarla. In questa ottica l’educazione sarà più orientata a reprimere sin dalla tenera età quei comportamenti considerati infantili e a promuovere, invece, quei comportamenti considerati da “bravo ometto” e “brava signorinella”.
Un’educazione di questo tipo si sviluppa sulla base di una ferrea convinzione, cioè credere che solamente imponendo ed inculcando un senso del dovere nei propri figli si possa aiutarli a sviluppare un comportamento responsabile. In realtà, così facendo, non si aiuta il bambino a costruire un proprio senso della responsabilità ed impegno verso se stessi e gli altri ed il comportamento irreprensibile sarà sollecitato esclusivamente dalla paura di essere sgridato e punito perché non desiderato, non accettato e non amato.
In questo modo, il bambino cresce credendo che responsabilità ed obbedienza siano la stessa cosa e che diventare grandi significhi sottostare alle regole imposte da altri, imparare ad obbedire e a dire sempre “Signor sì, sì Signore”, a non ascoltare i propri bisogni, a non scegliere, a non darsi importanza, dare priorità a ciò che altri hanno stabilito sia giusto o sbagliato e a non strutturare un proprio senso di responsabilità ed impegno, ma ad obbedire ad un ordine superiore, pena l’essere allontanato e non considerato.
Ed è proprio la paura di non essere abbastanza amabili a gettare le fondamenta di un concetto di “Adultità” pieno di pesantezza ed in cui il “Diventare grandi” significa sfiorire, chiudersi in un mondo fatto esclusivamente di serietà, obbedienza, dovere, un mondo in cui non possono entrare piaceri e divertimento perchè considerati distraenti, sintomi di infantilismo.
In questa ottica, la leggerezza diventa sinonimo di superficialità e la pesantezza sinonimo di responsabilità, il gioco ed il divertimento diventano infantilismi, bambinate senza senso e la rigidità e la schematicità diventano segni evidenti di adultità e sobrietà.
I bambini cresciuti con un’educazione così repressiva possono sviluppare l’idea che diventare grandi e responsabili significhi essere perfetti, bravi soldatini, robottini che non sbagliano mai, dediti al dovere e agli obblighi imposti, obbedienti e precisi, schematici, razionali, poco inclini a dare importanza alle emozioni (considerate inutili, “roba da bambini”) e a dare ed ascolto ai loro bisogni (considerati inopportuni e distraenti).
Se ci pensiamo bene, crescere in questo modo per un bambino diventa estremamente coercitivo, pesante, per nulla stimolante e accattivante ed essere grande per un adulto diventa asfissiante, ingabbiante, per nulla soddisfacente e liberatorio.
Un bambino al quale non è permesso di giocare e di divertirsi e un adulto che ha smesso di giocare e di divertirsi sono entrambi tristi ed infelici: se i bambini hanno il sacrosanto diritto al gioco e al divertimento, gli adulti hanno il sacrosanto dovere verso se stessi di giocare e divertirsi.
Quello del bambino è un diritto che non gli deve essere negato da chi ha responsabilità su di lui, quello dell’adulto, invece, è un dovere che egli stesso non si deve negare: è proprio il senso di responsabilità che un adulto dovrebbe avere nei confronti di se stesso che fa la differenza, ma non certamente l’importanza del gioco e del divertimento che rappresentano per entrambi il piacere di vivere.
Per comprendere quanto è importante mantenere in vita il gioco, il divertimento ed il piacere anche nell’età adulta, ci vengono in soccorso le “Isole della personalità” che abbiamo conosciuto in “Inside out”, uno dei film di animazione più noti di questi ultimi anni.
Nel film in questione la personalità viene descritta come un insieme di isole che definiscono l’Essere della protagonista nella sua totalità, isole che diventano sempre più ricche e complesse man mano che la protagonista cresce. Tra queste isole della personalità spicca “L’Isola della Stupidera”, cioè quella parte della personalità che si nutre della voglia di giocare, di ridere, di scherzare, di divertirsi e che si identifica, più in generale, nel piacere di vivere. Rinunciando al gioco, alle risate, al divertimento e alla condivisione delle emozioni, l’Isola della Stupidera crolla miseramente e la protagonista perde progressivamente la gioia di vivere, sentendosi sempre più sola, triste e arrabbiata.
Rinunciando al gioco e al divertimento non diamo più nutrimento alla nostra “Isola della Stupidera”, quella parte di noi più leggera e spensierata, necessaria a farci sentire il piacere della vita, la gioia del vivere e la voglia, il desiderio di vita.
Non dando più spazio nella vita da adulti al piacere di vivere, ci votiamo ad una vita senza vita, carica di pesantezza, dove il senso di responsabilità si lega indissolubilmente al concetto di obbligo, dovere ed obbedienza e non certamente al senso di libertà, potere e scelta sulla propria esistenza.
Questo significa che non è certamente diventando irreprensibili, perfetti, seri, rigidi e schematici che diventiamo veri adulti.
Adulti si diventa assumendosi la responsabilità di farsi felici e non si può essere felici se si rinuncia al piacere di vivere e quella parte di noi più in contatto con la gioia di vivere è quel bambino che siamo stati e che continua a vivere in noi, il nostro bambino interiore, quel bambino che non deve essere represso, ma stimolato, che non deve essere giudicato e punito per il suo entusiasmo, ma deve essere supportato ed orientato.
E se nella nostra infanzia quel bambino non ha avuto modo di essere aiutato ad imparare ad utilizzare la sua energia per costruire con gioia, entusiasmo e creatività la sua strada, non vuol dire che tutto sia perduto.
Non è mai troppo tardi per svincolarsi da una visione della vita fatta di soli obblighi e doveri, per liberarsi dalle pesanti catene dei propri rigidi schemi mentali.
Non è mai troppo tardi per imparare a vivere con leggerezza ed entusiasmo come adulti davvero responsabili, consapevoli di se stessi, capaci di scegliere, diventando, così protagonisti e registi della propria esistenza.
Nel concludere questo articolo, vi lascio alle parole dello psichiatra americano Theodore Isaac Rubin come stimolo a riflettere sulla parte leggera di noi con cui dovremmo tutti imparare a fare amicizia…
“Devo imparare a voler bene allo stupido che è in me: quello che è troppo sensibile, che parla troppo, corre troppi rischi, qualche volta vince e troppo spesso perde, che non ha autocontrollo, che ama e odia, fa male e si fa male, promette e non mantiene le promesse, ride e piange. Solo lui mi protegge da quel tiranno autoritario e sempre troppo equilibrato che vive in me e che, se non fosse per il mio lato stupido, mi ruberebbe la vitalità, l’umiltà e la dignità”
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