Qualche sera fa ho visto in tv “La Pazza gioia”, film pluripremiato di Paolo Virzì che mi ha lasciato il cuore gonfio delle emozioni più disparate: tristezza, rabbia, gioia, tenerezza, speranza… un turbinio di emozioni che mi ha travolto a ondate, lasciandomi anche un po’ stordita inizialmente.
Un film capace di trasmettere tutto questo per me è un capolavoro, ma al di là della bellezza del film in questione e del mio essere fan di Paolo Virzì (lo ammetto) da sempre, c’è una riflessione che, dopo due ore passate interamente assorbita dalla vite di Beatrice e Donatella (interpretate da una meravigliosa Bruni Tedeschi ed una intensa Ramazzotti), mi porto dentro.
Vorrei che questo film lo vedessero tutti, fosse proiettato ovunque, perchè ci permette di guardare la fragilità umana e di sentirla… e intendo sentirla davvero…
Ci permette di capire che il disagio mentale non è un’anatema che improvvisamente ci cade addosso, frutto della sfortuna o di chissà quale maleficio… Dietro le etichettature psichiatriche (che, ammetto, non mi sono mai piaciute ma che so, anche come addetta ai lavori, essere necessarie per un’ individuazione comprensibile delle caratteristiche cliniche per chi lavora in ambito psicologico e psichiatrico), oltre quei nomi così altisonanti (borderline, psicosi maniaco depressiva, disturbo bipolare, disturbo ossessivo compulsivo, ecc.), che possono mettere anche paura ai più, ci sono le persone… Ed in quella etichettatura c’è tutta la loro storia, i loro vissuti di sofferenza e di disperazione, la loro fragilità…
Il processo diagnostico (sia in ambito psichiatrico sia in ambito psicologico) è sempre una fase molto delicata; c’è , infatti, uno sottilissimo filo che separa la comprensione emotiva del disagio mentale dall’attribuzione di un’etichettatura fredda e rigida.
Laddove l’attribuzione di un’etichetta diagnostica tende ad omologare sulla base di specifici criteri diagnostici (se più persone soddisfano gli stessi criteri diagnostici avranno la stessa diagnosi), la comprensione del vissuto tende, invece, alla differenziazione perchè tiene conto della complessità dell’individuo, definendo, quindi, il disagio sulla base della storia di quella specifica persona.
La comprensione del vissuto e della storia personale dell’individuo non può essere un semplice contorno, al contrario, dovrebbe essere conditio sine qua non per arrivare a formulare una diagnosi. Potrebbe sembrare scontato ciò che dico, ma non sempre è così. Basta pensare a quante volte i pazienti vengono al primo colloquio con una diagnosi già in tasca (magari perchè parlando con gli amici o con il loro medico di famiglia gli è stata già “affibbiata”un’etichetta :”Sei ansioso”, “Sei depresso”, “Sei maniacale” e via dicendo) o a quando sono gli stessi professionisti ad utilizzare i test psicologici come mappa orientativa di base, quindi ancor prima di essersi dati modo di conoscere empaticamente il pz attraverso i colloqui clinici (quasi come a dire “E’ il test che mi deve dire cos’ha e come muovermi”), sottostimando, in questo modo, l’importanza del suo vissuto e mettendo invece l’accento sui criteri diagnostici per arrivare a definire il suo disagio principalmente sulla base di un’etichettatura tout court.
E allora capita che invece delle persone, ancor prima delle persone, vediamo il nome del loro disagio (preferendo dare un nome certo e incontrovertibile al loro disagio), ignorando totalmente, invece, la loro storia (e magari anche i loro nomi). In questo modo, il nome del loro disagio diventa il loro Essere, ovvero per gli altri le persone non hanno un disagio mentale, ma sono il loro disagio “Quella è bipolare”… “Quell’altra è depressa”…. “Quell’altra ancora è schizofrenica”.
Ecco, nel film “La pazza gioia” si ha l’opportunità di conoscere invece le persone che hanno un disagio mentale attraverso la storia ed il vissuto delle due protagoniste, Beatrice e Donatella, che non sono esseri strani, venute chissà da quale pianeta, ma esseri umani come tutti noi. E allora ci si accorge che la loro sofferenza non ha un sapore diverso da quella che può avere ognuno di noi in vari momenti della propria vita… “Semplicemente” in loro la disperazione ha preso il sopravvento strutturando un proprio mondo, una propria realtà per poter sopravvivere a quel dolore così intenso e distruttivo… Ma questo potrebbe capitare ad ognuno di noi…
Se la smettessimo di etichettare le persone come Beatrice e Donatella come pazze (la definizione di pazzia a volte sembra rassicurante per chi, definendosi sano, ritiene il disagio mentale una sorta di virus, di peste bubbonica) riusciremo a vedere la loro umanità e la loro non anormalità…
Se ci piace definirle pazze, allora pazza lo sono anch’io, pazzi lo siamo tutti… Perchè tutti siamo umani, tutti siamo fragili e frangibili…
C’è un po’ di Beatrice e di Donatella in ognuno di noi…
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