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Psicoterapia e cambiamento: quando manca la motivazione

Psicoterapia e cambiamento: quando manca la motivazione

Quando una persona si rivolge ad uno psicoterapeuta per aiutarlo a risolvere i propri problemi non è detto che sia davvero pronto a farlo; il fatto di aver trovato il coraggio a chiedere un aiuto è sicuramente un passo importante, ma non significa essere necessariamente motivati al cambiamento ed essere pronti ad una psicoterapia.

Ciò significa che, ancor prima di iniziare qualsiasi percorso terapeutico, il terapeuta deve poter valutare quanto la persona sia motivata al cambiamento e capire se il grado di motivazione sia sufficiente per lavorare insieme e con quali obiettivi.

Sono molti i fattori che influenzano la motivazione al cambiamento: non è solo la paura del cambiamento, infatti, a remare contro la possibilità di riuscita di una terapia, ma anche la rigidità delle proprie convinzioni, ovvero quanto il problema sia vissuto in modo egosintonico dalla persona: questo vuol dire che se il problema non viene percepito come condizione invalidante dalla persona, ma come naturale conseguenza del proprio modo di essere che non si vuole assolutamente modificare (o non ci si vuole lavorare) sarà difficile strutturare un percorso terapeutico efficace.

A volte le persone che chiedono aiuto allo psicologo, hanno l’aspettativa che con una “chiacchierata”, al massimo in due o tre incontri, lo psicologo gli risolverà il problema. In questo tipo di aspettativa ci sono diversi errori di valutazione:

  • Sfogarsi sicuramente è salutare quando serve a svuotarsi di tutti i pesi, le incombenze, le tensioni accumulate, ma non è sufficiente per attuare una modifica ad una situazione di dolore, sofferenza e disagio; a lungo andare uno sfogo a cui non corrisponde un’azione produce un lamento fine a se stesso che cronicizza ancora di più il disagio piuttosto che risolverlo.
  • Non è lo psicologo che si deve rendere artefice del cambiamento da dover attuare; in poche parole, non è lo psicologo che decide per il paziente. Lo psicoterapeuta, infatti, ha il ruolo di facilitatore, accompagnatore, di guida nel percorso di cambiamento, di stimolatore di altri modi di vedere, agire, pensare, dare significato alla realtà del paziente. Con la psicoterapia il paziente impara, attraverso la conoscenza delle proprie risorse e dei propri limiti, a costruire e percorrere la strada del cambiamento in direzione del proprio benessere e di cambiamento rispetto ad una condizione precedente di malessere e disagio. E’ il paziente che deve potersi e volersi soprattutto rendere responsabile del proprio cambiamento; in caso contrario, non c’è “psicoterapia che tenga”.
  • La psicoterapia è un percorso che necessita di tempo, impegno e fatica e la persona deve avere la motivazione a voler investire il suo tempo con impegno e fatica in un progetto terapeutico; altrimenti, dopo poche sedute, la persona se ne andrà dicendo “non posso più venire in terapia” adducendo i più svariati motivi. La persona seriamente motivata alla terapia, anche quando dovessero sopraggiungere seri impedimenti al proseguimento della terapia, è in grado di parlarne con il proprio terapeuta per trovare insieme una possibile soluzione utile a proseguire la terapia e a non interromperla.

Quando non seriamente motivata alla terapia, la persona può agire in diversi modi:

  • Utilizza gli incontri con il terapeuta come “valvola di sfogo”, manifestando in modo chiaro ed inequivocabile la sua scarsa motivazione al trattamento, per esempio con frasi del tipo: “Sono venuto qui giusto per sfogarmi un po’ e devo dire che adesso va decisamente meglio”.
  • Utilizza gli incontri con il terapeuta come “tappabuchi” in situazioni di emergenza; in questi casi, la richiesta di aiuto arriva in un momento di forte emergenza che inizialmente predispone la persona ad impegnarsi per rimuovere il disagio emergente. Non appena, però, l’emergenza rientra e la situazione ritorna ad un’apparente calma, la persona abbandona la terapia. Ma abbandonare la terapia per questi pazienti, non significa chiudere con la terapia, piuttosto utilizzarla quel tanto che basta per risolvere il disagio imminente senza mettersi davvero in discussione; è inevitabile, quindi, che le persone così se ne vanno non chiudendo la porta, ma tentano sempre di lasciarla aperta dietro le spalle in caso di un’altra emergenza. Sono queste le situazioni in cui, per esempio, il paziente, dopo pochi efficaci incontri, può chiedere di interrompere la terapia, adducendo motivi esterni a sé che gli impediscono di proseguire, manifestando nel contempo l’intenzione di riprendere “appena torneranno le condizioni per farlo”.
  • Utilizza gli incontri con il terapeuta come “manuale di istruzioni”, chiedendo delle direttive risolutive concrete senza l’intenzione di lavorare su di sé, sulle proprie fragilità, limiti, problematiche emotive. In questi casi, fin tanto che il paziente si sente adeguatamente supportato nella ricerca concreta di soluzioni va tutto bene, ma quando il terapeuta tocca tematiche emotive importanti o scomode, la persona “magicamente” si sente meglio e sente di non non avere più bisogno di aiuto perchè sente che “ce la faccio da solo”.

Questo tipo di movimenti si delineano come resistenze al lavoro terapeutico ed il terapeuta deve poter capire se davvero esistono le condizioni per un aiuto concreto.

Molte persone si rivolgono allo psicologo per cambiare, ma non tutte hanno la forte motivazione a farlo; in questi casi, è bene che il terapeuta si prenda prima il tempo di capire se esistano le reali condizioni per una presa in carico della persona e della sua richiesta di aiuto. Continuare ad insistere laddove la motivazione al cambiamento sia scarsa esporrebbe la relazione terapeutica ad un fallimento in partenza, lasciando così nel terapeuta un senso di frustrazione rispetto all’efficacia del proprio lavoro e nel paziente un senso di inutilità rispetto al tempo e ai soldi investiti.

La disponibilità ad impegnarsi in un percorso terapeutico presuppone la possibilità di mettersi in discussione e soprattutto la volontà a farlo impiegando tempo ed energie; se la persona non è disposta a questo, il terapeuta deve poter “deporre le armi”, perché “Si può portare un cavallo all’abbeveratorio ma non si può costringerlo a bere”, ovvero non si può aiutare chi non è disposto pienamente a farsi aiutare.

In questi casi, quindi, è bene che il terapeuta sia chiaro con il paziente, restituendogli la sua scarsa motivazione alla terapia come momento non opportuno per lavorare alle sue difficoltà, lasciandogli così il tempo di riflettere sulla possibilità di iniziare seriamente un percorso terapeutico più in là nel tempo, quando la sua motivazione sarà abbastanza forte da volersi mettere in discussione assumendosi piena responsabilità/potere rispetto alla possibilità di cambiamento.

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Simona Baiocco

Psicologa Clinica e di Comunità - Psicoterapeuta ad indirizzo Strategico Integrato (Adulti - Coppie - Adolescenti - Gruppo) - Iscr. Albo Psicologi Lazio n. 14455

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